“L’articolo 18 è un falso problema e toglierlo non rilancerà l’economia”. L’intervista

Un falso problema. Non usa mezzi termini per definire la querelle Articolo 18 innescata da governo e Confindustria – ovvero l’eliminazione del posto fisso – il presidente di Cna Giovani Andrea Di Benedetto. Per Andrea, salernitano laureato a Pisa fondatore e presidente dell’azienda di informatica 3Logic Mk, l’economia non è al palo per colpa dell’Articolo 18 e non è vero che gli imprenditori stranieri non investono in Italia per questo. “I problemi sono altre cose come burocrazia, sistema dei pagamenti, credito e mancanza di regole certe. Se vogliamo rilanciare l’economia, si deve puntare sulle piccole imprese”.

Confindustria e governo premono per togliere l’articolo 18. E’ veramente una delle soluzioni per rilanciare l’economia italiana?
“Senza voler far polemica posso dire che quello dell’articolo 18 – sostiene Andrea – è un falso problema creato da Confindustria, sindacati e governo visto che riguarda un milione di lavoratori su 20 milioni di forza lavoro totale. In Italia la maggioranza delle imprese è di medio piccolo calibro con una forza lavoro diversa e con tutt’altro rapporto di flessibilità sia in entrata che in uscita visto che non abbiamo 15 dipendenti. Come può essere il problema principale? In più, nonostante riteniamo giustissime le lotte per tenerlo, è inaccettabile che gli altri 19 milioni abbiano pochissime tutele: non hanno malattia, maternità, niente. L’eliminazione dell’articolo 18 è visto come rimedio per rilanciare l’economia e per attrarre gli investitori stranieri ma non è questo che li frena”.

Cosa li frena?
“Burocrazia, malavita, incertezza iter giudiziari, mancanza di formazione dei manager e approccio con la ‘macchina’ pubblica e amministrativa. Non ci sono tempi certi su niente. Faccio un esempio. Parlando con rappresentanti di grandi gruppi stranieri mi hanno detto che l’Italia è il miglior posto dove investire per le rinnovabili, anche per quanto riguarda i finanziamenti. Non investono però perché non c’è la certezza di arrivare in fondo: se si mette di traverso un qualunque degli innumerevoli enti che devono approvare una pratica, va tutto a farsi benedire. Negli altri paesi si hanno tempi certi su tutto e le pratiche da fare sono tutte chiare. In più, c’è il grosso problema del pagamento e del credito”.

Cioè?
“Il sistema dei pagamenti è allucinante. Sia pubblica amministrazione che grandi aziende pagano a 100-200 giorni. Significa che i piccoli ‘finanziano’ grandi e medie aziende. In Germania ad esempio si hanno tempi di pagamento di 15-20 giorni. Qua enti pubblici e grandi aziende a volte pagano anche in 6 mesi-1 anno facendo arrivare i sub fornitori a livelli di indebitamento tali che poi falliscono. In pratica la grande azienda scarica il debito finanziario sulla piccola non risultando mai indebitata. Considerando che i grandi gruppi compongono il 20 per cento del Pil contro circa il 50-60 per cento composto dalle piccole imprese, va da se che questo ragionamento sia assurdo. Il credito poi è un’altra nota dolente. Nessuno chiede alle banche di fare beneficenza ma considerando i dati di BankItalia vediamo che nonostante questo sbagliato sistema dei pagamenti le aziende col miglior default e meno sofferenze sono le piccole. Ci chiediamo perciò perché concedano credito facilmente ai grandi gruppi e non alle micro-piccole aziende. È contro ogni legge e logica del capitalismo stesso. È un sistema bancario strabico”.

Crisi a parte, di chi è la colpa della stagnazione dell’economia italiana?
“E’ il risultato di cinquant’anni di storia italiana. Per quel che riguarda i grandi gruppi, c’è stata la miopia di tanti manager che tendevano a incamerare tanto e subito senza voler programmare a lungo termine. Va detto anche che le aziende li pagavano per questo. C’è stato anche l’errore dei politici che hanno avvantaggiato tante aziende perché ‘amiche’ per assicurarsi voti. Però c’è stato anche il grande sbaglio delle piccole aziende che non sono riuscite a ‘fare lobby’ in senso buono e a farsi sentire dal governo mentre le grandi aziende, che rappresentano solo una parte del paese, hanno fatto bello e cattivo tempo. In Germania ad esempio le piccole aziende che insieme rappresentano il 50 per cento del Pil si sono riunite sotto un’ente e quando si arrabbiano verso il governo lo fanno tremare. Stiamo provando a imitare le aziende tedesche con una rete di imprese che mette insieme Cna, Confartigianato e tutte le altre sigle”.

Quale può essere una ricetta per far ripartire l’Italia?
“Aiutando le piccole imprese come hanno fatto negli altri paesi, dandogli finanziamenti e permettendogli di spendere nell’innovazione facendoli diventare tanti piccoli gioielli. In questo modo si diventa competitivi a livello italiano e globale. Negli Usa o in Germania hanno capito che l’economia si è ‘polverizzata’ e i soggetti troppo grandi sono pachidermici. Per questo hanno puntato su più strutture veloci e snelle avendo risultati concreti già nel brevissimo periodo. In Italia non dobbiamo scorporare grandi gruppi visto che, per paradosso, avendo visto nascere già molti anni fa piccole aziende ci troviamo ‘avanti’ nonostante siamo rimasti indietro di tanti anni. In pratica è come se ci fossimo fermati in un punto di un cerchio, gli altri abbiano fatto il giro e ora noi ci troviamo in testa. Il governo attuale e quelli futuri devono fare cinque cose oltre a combattere la malavita: spendere in ricerca e scuola, snellire la macchina burocratica, fare leggi sui pagamenti, far aprire le banche alle piccole imprese e incentivare con finanziamenti le micro-piccole aziende per digitalizzarle. Solo così usciremo dalla crisi e rilanceremo la nostra economia attirando anche investitori”.

Francesco Bertolucci

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